27
ottobre 2014 - Un gettone per l'iPhone
26
ottobre 2014 - Il 41% di Renzi? Un bluff
7
ottobre 2012 - I dirigenti
7
agosto 2012 - Vivere al di sopra dei propri mezzi
18
maggio 2012 - La questione dell'età
11
maggio 2011 - Tagliare le tasse, tagliare la cultura
28
aprile 2011 - Le elezioni per il Comune di Milano
12
giugno 2009 - Perché sono scomparsi i «dischi»
3
gennaio 2009 - Quelli che hanno fatto il Sessantotto
8
dicembre 2008 - Lo straordinario spopola
6
ottobre 2007 - La linea del partito e quella dell'intellettuale
23
gennaio 2007 - Musica d'arte e di consumo
18
dicembre 2006 - Minimo comune denominatore
1
novembre 2006 - Quanto vale la musica in Italia?
18
luglio 2006 - Saluti
27
marzo 2006 - La dichiarazione IVA di Prodi
13
marzo 2006 - Se ne vado
2
novembre 2005 - Rock e lento
1
luglio 2005 - Live Eight: dove sono i nostri Billy Bragg?
26
maggio 2005 - You'll Never Walk Alone
25
maggio 2005 - Stalingrado e La fabbrica con gli archi
18
maggio 2005 - La laurea a Vasco Rossi
9
maggio 2005 - Grazie
3
maggio 2005 - Dimissioni dal Mantova Musica Festival
27 ottobre 2014 - Un gettone per l'iPhone
Poco meno di trent'anni fa, quando il pistola che ora è a
Palazzo Chigi probabilmente era ancora nei lupetti (per gli
scout era troppo giovane),
accompagnai in giro per l'Italia Steve Furber, uno dei tre progettisti
dell'ARM (Acorn Risc Machine), il primo chip a tecnologia RISC
a basso
costo.
http://en.wikipedia.org/wiki/ARM_architecture
Furber teneva conferenze su quella tecnologia, io cercavo di
attirare
l'attenzione sull'Archimedes, un personal computer RISC (il
primo), perché
lo si installasse nelle scuole e nelle università.
Quella tecnologia è stata adottata in seguito per la
progettazione di chip
che a lungo hanno continuato a chiamarsi ARM, utilizzati in
svariate
applicazioni industriali, fra le quali la telefonia cellulare.
Ogni iPhone
di questo mondo (come tutti gli smartphone equivalenti) si basa
su quella
tecnologia.
Il pistola di Palazzo Chigi, che per essere stato una volta
a Silicon Valley se la tira da "moderno", dimentica
che se le nuove tecnologie oggi sono così
sviluppate è perché qualcuno le ha progettate
e fatte crescere, trenta e più
anni fa. Molti di quelli che ne sono responsabili ora hanno
più di sessanta
o settant'anni (Steve Jobs ne compirebbe sessanta l'anno prossimo).
Questi sarebbero i "vecchietti" con i quali se la
prende Renzi.
"Saria mi el pistola, el pistola te set ti..." (Jannacci, "T'ho
compraa i calzett de seda", 1964).
26 ottobre 2014
- Il 41% di Renzi? Un bluff
È dal giorno dopo le le lezioni europee che viviamo sotto la
minaccia (che per alcuni può essere anche gradita) di quel 41%
che il PD ha ottenuto in quell'occasione, e che Matteo Renzi
dà per scontato che otterrebbe anche
alle prossime elezioni politiche.
Si tratta (vale la pena di puntualizzare) del 40,81% dei voti validi, che
sono stati 27.371.747 (a me i conti riportati sul sito del Ministero degli
Interni non quadrano perfettamente, ma la differenza è di poche migliaia).
Aveva votato il 58,68% degli aventi diritto; a quella quota vanno poi tolte
le schede bianche, quelle nulle, quelle contestate o non assegnate. I voti
attribuiti al PD sono stati 11.172.861.
Alle ultime elezioni politiche l'affluenza
era stata del 75,16%, il 28% in più (si deve calcolare il calo o l'incremento
percentuale, non fare la differenza in punti percentuali), con 35.254.807 votanti.
Per ottenere una percentuale del 40,81% con un'affluenza uguale a quella delle
politiche del 2013, il PD dovrebbe raccogliere poco meno di 14.400.000 voti (giusto
il 28% in più rispetto alle europee). Nel 2013 – con quell'affluenza – ne prese
8.644.187, pari al 25.42%: quel famoso 25% che Renzi oggi paventa se il suo
partito ritornasse sulla "linea Bersani".
Ora, l'affermazione di Renzi che il
PD possa ottenere il 41% alle politiche,
"come alle europee", può forse ingannare quella grande massa di italiani che
non sanno cos'è una percentuale, come si calcola, e che operazioni si fanno
con quei valori. Ma che il PD possa ottenere quattordici milioni e passa di
voti in una consultazione politica, con alle spalle tutta la storia delle
differenze fra risultati europei e nazionali (ricordate il successo del PCI
alle europee, dopo la morte di Berlinguer?), fa davvero riflettere.
Se ne prendesse 11 milioni (gli stessi delle europee), che sarebbe comunque una
grande crescita rispetto al PD delle politiche 2013, otterrebbe il 31% circa.
Su questa cifra sono disposto a scommettere.
Quello di Renzi è un bluff. Qualcuno dovrebbe andarlo a vedere.
7 ottobre 2012 - I dirigenti
Ho trovato molto interessanti le dichiarazioni di un consigliere
regionale lombardo a proposito dei previsti tagli agli emolumenti
della sua categoria. Senza quegli ottomila euro di stipendio
(sono in realtà meno di settemila, ahilui, ma poi ha
altre entrate), come farà ad arrivare alla fine del mese?
Quando è stato eletto, facendo conto su quello stipendio
e sul vitalizio al termine del mandato, si è impegnato
per un mutuo costoso. Ma poi il vitalizio è stato abolito,
e ora... Di fronte all'obiezione che si tratta comunque di compensi
più che sostanziosi, il consigliere replica che prima
di essere eletto era un dirigente del settore privato: se avesse
saputo che da consigliere regionale avrebbe guadagnato di meno
non si sarebbe candidato.
Devo dire che non mi stupisce tanto
l'idea che il valore di una carica pubblica debba essere misurato
soltanto in base ai guadagni che la carica produce (visto il
partito dal quale proviene il consigliere in questione). Mi
colpisce di più l'appello a quello che sembra essere
un sentimento largamente condiviso, non solo "a destra",
e cioè che sia giusto che un dirigente privato guadagni
molto, e che la qualità dei dirigenti privati sia necessariamente
alta. Dal che si deve concludere che se si vuole che le istituzioni
pubbliche abbiano dirigenti di qualità, devono essere
pagati almeno quanto quelli delle aziende private, che sono
di qualità per definizione.
Infatti, si parla della "casta" dei
politici, di quella dei magistrati, di quella (capirete...)
dei professori, ma mai di quella dei "manager" (così come
li si chiama qui da noi). Che un dirigente privato guadagni
tanto, tantissimo, è giusto, perché i dirigenti
privati sono bravi.
A dire la verità, avendo lavorato
per una quindicina di anni nel settore privato, e in un ambito
di quelli più competitivi, posso testimoniare che fra
i dirigenti delle aziende italiane ci sono anche sonorissime,
grandiose teste di cazzo. Ma vi ricordate quando i personal
computer della Olivetti facevano concorrenza a quelli della
IBM? Che fine gli hanno fatto fare? E lo sappiamo che la tecnologia
dei chip che oggi fanno funzionare gli smartphone la sviluppò una
piccola società inglese, acquistata dalla Olivetti, e
venne poi dismessa (quasi come il sistema common rail per i
motori diesel, sviluppato dalla Fiat e ceduto alla Bosch)? Ricordo
una riunione nella quale dovevo spiegare i principi dell'architettura
client-server allo staff di una grande compagnia telefonica.
Il dirigente mi disse: "Parli pure liberamente, qui siamo
tutti di estradizione tecnica!" La sua competenza tecnica
non era superiore, vi giuro, a quella linguistica.
È un
fenomeno globale. Chi ha visto The Inside
Job ricorderà le
facce da beoti (o da criminali, o entrambi) di alcuni dei dirigenti
e consulenti di grandi istituzioni finanziarie statunitensi,
responsabili del disastro del 2008. Molti sono ancora al loro
posto e guadagnano milioni.
È il risultato ovvio, direi,
di trent'anni di lotta di classe dall'alto in basso, fin dai
tempi di Reagan, senza apparente resistenza da parte dei partiti
(ma anche degli intellettuali) "di sinistra". "Tecnico" è bello
(come si vede dal nostro governo attuale) e merita, per difetto
(default, se preferite) paghe sempre più alte. La selezione
meritocratica la devono passare gli altri, i lavoratori. Chi è "tecnico" ha
meritato per sempre, a partire dal giorno in cui è stato
assunto come dirigente, spesso per meriti che con la competenza
non hanno nulla a che fare.
Ma il falcetto su l'uve iroso scende
come una scure, e par che
sangue cóle...
(G. Carducci, Ça
ira).
7 agosto 2012 - Vivere al di sopra dei propri mezzi
Non posso resistere a commentare il ritornello che da mesi
circola nei discorsi di politici (non solo italiani) e opinionisti,
e che mi raggiunge
perfino qui, in mezzo all'Egeo: che per tanto tempo "abbiamo
vissuto al di
sopra dei nostri mezzi" e ora "ne paghiamo le conseguenze".
Faccio una certa fatica a identificarmi in quella prima persona
plurale. Non
posso negare che a lungo (e specialmente in certi periodi, e
sotto certi
governi) lo stato italiano si sia indebitato oltre ogni ragionevolezza,
sia
indulgendo nelle spese, sia rinunciando a incassare e tollerando
un'evasione
fiscale enorme. Ho sempre pensato (forse senza grande acutezza
scientifica,
perdonatemi) che un meccanismo tipico del processo di indebitamento
dello
stato italiano fosse l'emissione di buoni del tesoro, gran parte
dei quali
venivano acquistati da "risparmiatori" con il frutto
della loro evasione
fiscale, creando così un debito dello stato verso coloro
nei confronti dei
quali avrebbe dovuto essere creditore.
Ma, in ogni caso, io (scusate la personalizzazione)
non c'entro. Ho sempre
votato contro i governi che hanno promosso quella politica.
Ho sempre pagato
le tasse, senza che mi restasse un centesimo da investire in
borsa o in
buoni del tesoro. Da quando lavoro direttamente per lo stato,
nell'università, ho percepito compensi e stipendi ridicoli
rispetto ai miei
colleghi di qualunque altro paese europeo. Non ho beneficiato
di sussidi e
regalie di alcun tipo, e quando ho avuto bisogno della sanità pubblica
credo
di aver pagato tutto fino all'ultimo centesimo attraverso le
imposte sui
miei (modesti) redditi.
Non sono certamente il solo. Anzi. Credo che una larga percentuale
dei miei
concittadini si possa identificare in questo quadro e in questi
comportamenti. Quindi, non "abbiamo" vissuto al di
sopra dei "nostri" mezzi.
"Hanno" vissuto al di sopra dei "nostri" (ahinoi)
mezzi. Chi? Quei
farabutti, dei quali si potrebbe ricostruire abbastanza facilmente
l'elenco.
E che, in buona parte, e a lungo, hanno sostenuto quella politica
di
indebitamento anche per restare abbarbicati al potere e per
impedire ogni
rinnovamento politico-culturale della società italiana,
perseguendo sempre e
comunque gli obiettivi del neoliberismo più aggressivo.
Quindi, diteglielo (diciamoglielo), ai banchieri tedeschi,
finlandesi, ai grilli parlanti della finanza e dell'industria:
noi non
abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi, e se lo stato
italiano si è
indebitato lo ha fatto spesso perché il nostro paese
restasse stabilmente nel loro campo. Perdonate l'insistenza: loro hanno
vissuto al di sopra
dei nostri mezzi.
18 maggio 2012 - La questione dell'età
A proposito del recente e rinnovato dibattito sulla gerontocrazia
(certamente fondato, per chi si occupi di politica, o di università,
o di altri settori congelati in Italia nello stato in cui si
trovavano decenni fa): non trovate curioso come l'età tenda
a diventare l'unico fattore, categoria, concetto, su cui basare
ragionamenti sulle prospettive della società? Come se
non esistessero il genere, la classe, la cultura, eccetera?
Come se la vera e rapida soluzione di tutti i mali presenti
sia costituita dalla cessione immediata, da parte dei "vecchi",
del loro "potere" in favore dei "giovani",
così da metterli finalmente
in condizione da sviluppare le loro "maggiori energie" e
la loro "creatività"?
Come se non si trattasse di rimuovere dalle loro posizioni di
comando coloro che le occupano indegnamente (non sempre e non
solo in ragione della loro età),
ma semplicemente di fare piazza pulita di tutti gli ultracinquantenni?
Vi pongo, dunque, questa domanda. Secondo voi, i trader che
scommettendo sul fallimento di interi Stati stanno mandando
in rovina l'economia mondiale e le esistenze di milioni (miliardi?)
di persone giovani e meno giovani, quanti anni hanno?
Potete trovare la risposta alla penultima riga dell'articolo "Dal
mercante di Venezia alle follie di JPMorgan", di Paul Kennedy,
a pagina 34 de l'Internazionale uscito oggi.
11 maggio 2011 - Tagliare le tasse,
tagliare la cultura
Prima di passare a quello di cui vi volevo scrivere, una nota
importante. Dovunque voi siate, dovunque votiate per le prossime
comunali (se votate), non tralasciate di dare un voto alla lista.
A una lista, e a un candidato di lista (uno solo).
Se si vota solamente per il candidato sindaco, magari per uno
scrupolo di unità e contro le divisioni tra i partiti,
si rischia che quel sindaco, se eletto, non abbia una maggioranza
in Consiglio.
(E poi, carissimi/e milanesi, se vi va di votare per me, nella
lista di SEL, fate pure...).
Volevo accennarvi ai finanziamenti alla cultura, e ai relativi
tagli: un tema che si discute molto.
C'è una tendenza, qui da noi, a considerare i tagli alla
cultura (intesa nel senso più ampio, che include scuola
e università) come una specie di fenomeno atmosferico:
c'è la crisi, qualsiasi governo dovrebbe risparmiare,
un governo di destra - "nemico" della cultura, d'accordo
- taglia lì.
È tutto vero, ma forse perdiamo dei collegamenti.
La crisi del sistema basato sulla speculazione selvaggia c'è,
e non passerà se non cambia quel sistema (avete visto
il bellissimo documentario The Inside Job?). Ma i tagli alla
cultura non ne sono una conseguenza diretta, "naturale".
Il bilancio dello stato migliorerebbe se ci fossero maggiori
entrate fiscali, e le entrate fiscali sarebbero maggiori se
si recuperasse l'evasione e se si esigesse il giusto dalla fascia
più ricca (sempre più ricca) della popolazione.
Ma i governi di destra invece tagliano le tasse ai ricchi. E
per recuperare risorse tagliano la cultura. È un puro
collegamento contabile? Minori entrate di qua, minori uscite
di là?
No. George Lakoff, lo scienziato cognitivo e politologo statunitense,
consulente per la campagna di Barack Obama, ha spiegato il meccanismo
in un libro pubblicato durante la presidenza Bush: Don't Think
of an Elephant (Non pensare all'elefante, Fusi Orari, Roma,
2006). I tagli (o i mancati aumenti) alle tasse dei più ricchi
contribuiscono a garantire ai ceti più affluenti la possibilità di
far frequentare ai figli università private e di accedere
ai think tanks delle fondazioni culturali sostenute dai conservatori.
D'altra parte, i figli delle famiglie meno ricche fanno fatica
ad accedere all'università. E nel frattempo i tagli alla
cultura rendono sempre meno efficace l'istruzione pubblica,
e colpiscono direttamente le professioni intellettuali tradizionalmente
più affini ai settori progressisti della politica. È una
strategia deliberata, quella di colpire le istituzioni culturali
filo-democratiche, mentre si favoriscono le carriere dei figli
dei ricchi.
È un fenomeno solo statunitense? Ne siamo immuni?
Tutt'altro. Almeno se ricordiamo che la politica di tagli così ben
orchestrata dall'asse Tremonti-Gelmini-Bondi (pace all'anima
sua) risale perlomeno al proclama del 1993 (che dovrebbe essere
più noto di quanto non sia) di Giancarlo Lombardi, allora
vicepresidente di Confindustria e successivamente ministro della
Pubblica Istruzione nel governo Dini (eh...).
Lombardi disse che l'obiettivo della formazione nel futuro avrebbe
dovuto essere quello di creare "menti d'opera emancipate
dal sapere critico".
Questa, carissimi e carissime, è la chiave della distruzione
della scuola e dell'università pubbliche pianificata
dalla destra italiana.
A sinistra c'è qualche imbarazzo a resistere: ricordo
un articolo recente di Goffredo Fofi sull'Unità (30 aprile
2011). Un'incredibile difesa dei tagli (appunto, come se fossero
nell'ordine naturale della cose), un attacco ai "finti
intellettuali", che starebbero a lagnarsi della fine dei
privilegi basati sull'impiego del denaro pubblico. È come
se piovessero bombe (di un bombardamento deliberato e mirato)
e si facessero le pulci a quelli che si nascondono nei rifugi
(ma come ha detto qualcuno, quelli di sinistra si lavano poco).
Ma è ora, appunto, di voltare pagina e di cambiare aria.
Ci siamo vicini, no?
28 aprile 2011 - Le elezioni per il Comune
di Milano
Di solito a un candidato si chiede di presentare un programma,
o almeno un elenco convincente di valori in cui crede e di cose
che vorrebbe fare se eletto. Nonostante queste elezioni (come
tutte negli ultimi vent'anni) si siano trasformate in un referendum
sulla democrazia, e nonostante sia chiaro che a Milano l'obiettivo
principale sia quello di togliere la città dalle mani
del malaffare e di dare un segnale fortissimo alla politica
nazionale, mi permetto di rubare un po' del vostro tempo
per dirvi alcune delle cose per cui mi impegnerei se fossi eletto,
e che vorrei comunque che fossero realizzate.
Milano non è una metropoli. Forse lo è stata,
forse potrebbe diventarlo, ma malgrado la supponenza di chi
l'amministra da decenni, è una città modesta,
sotto molti aspetti inferiore (ad esempio, per benessere di
chi ci abita) a tante città italiane di provincia. Qualunque
sia la categoria in cui la vogliamo includere, Milano potrebbe
migliorare, e di molto, se chi l'amministra avesse la voglia
o il tempo di tener conto dell'esempio delle metropoli europee,
magari visitandole e studiandole. In altro momento e in altra
sede (sul mio sito) parlerò di vita musicale, di cultura,
di università, del mio mestiere: qui vorrei parlare brevemente
di trasporti, che coinvolgono me, come voi, come tutti i cittadini,
per una durata giornaliera spesso non inferiore a quella del
lavoro.
Il confronto di Milano, non dico con Parigi e Londra, ma con
Barcellona, Berlino (che solo poco più di vent'anni fa
era un avamposto diviso da un muro), o perfino Atene è sconsolante.
Pensate che aeroporto ridicolo sia la Malpensa (e quanto se
n'è parlato!) rispetto a quelli ai quali dovrebbe fare
la concorrenza. Provate ad arrivare dalla Malpensa con l'omonimo
'Express', senza trovare una scala mobile in discesa che vi
porti al livello dei treni della metropolitana. E lo stesso
per la Stazione Centrale: anche a usare i bizzarri tapis-roulants
che sembrano servire solo ad allungare il viaggio, si deve poi
trascinare la valigia su scale in salita e in discesa, in un
corridoio puzzolente. Se e quando faranno davvero la linea della
metro che da Linate porta in città, ci si potrà arrivare
in ascensore come nel resto del mondo, o ci sarà qualche
altro trucco per accontentare la lobby dei tassisti?
Pensate agli orari della metropolitana: molti treni di superficie
partono dalle varie stazioni di Milano anche un'ora prima che
la metropolitana abbia aperto. E perché Milano non ha
una stazione degli autobus? Non se ne poteva fare una sulla
superficie delle ex-Varesine, risparmiando un paio di torri
che resteranno vuote? No, meglio progettare un'autostrada sotterranea
da Linate a Rho, con l'obiettivo pazzesco di mettere il traffico
e l'inquinamento sottoterra (ma gli automobilisti respireranno
i loro gas di scarico, o questi saranno pompati fuori nella
città?).
Alcuni di questi vi sembreranno dettagli inessenziali. Ma è attraverso
la somma di tutti questi dettagli che si crea una città dove
usare la propria auto è meno conveniente che ricorrere
al trasporto pubblico. Non ci sono, poi, ecopass e altre tasse
che tengano: se metro, bus e tram sono scomodi (in quale c'è posto
per mettere una valigia, anche quando passa da stazioni o aeroporti?),
se la guida è a strappi e i passeggeri meno agili sono
sbattuti avanti e indietro (nei "nuovi" tram, soprattutto),
se le corsie preferenziali sono invase dalle auto (anche a causa
dei parcheggi in seconda fila) e nessuno interviene, chi resiste – potendo – a
prendere la macchina? E se le piste ciclabili non esistono,
o hanno percorsi indifesi e assurdi, che alternative si offrono?
Alcune delle città che ho citato hanno un traffico paragonabile
a quello di Milano (ma sono molto più grandi), altre
anche peggiore (ma hanno rinnovato i loro trasporti pubblici
più di recente e più rapidamente). Nessuna però offre
l'immagine di incapacità di affrontare e risolvere i
problemi del traffico che Milano e i suoi amministratori hanno
presentato, da anni e anni. La speculazione, il disprezzo per
la volontà dei cittadini e le esigenze dei più deboli
(pensiamo alle vicende dei parcheggi sotterranei), le lobbies
economiche e politiche fanno premio su tutto.
Ne vogliamo uscire?
12 giugno 2009 - Perché sono scomparsi
i «dischi»
Sono appena tornato da un viaggio all’estero, dove ho potuto constatare
la sparizione graduale (ma implacabile) dei negozi di «dischi»,
anche in città di più di tre milioni di abitanti. Ad Atene
reggono un paio di megastore, ma lo spazio è occupato sempre
di più da dvd e giochi; a Smirne non sono riuscito a trovare
un solo negozio che avesse dei cd audio: tutti i grandi negozi che
ho incontrato vendevano solo dvd e giochi, e quando in un quartiere
periferico ho scoperto una bottega che sembrava promettere delizie
musicali orientali, ho trovato che gli unici supporti audio erano cassette,
e il resto erano dvd e dischi blue-ray.
Come ormai succede con sempre maggior frequenza, più ci si allontana
dal «centro» e più si vede il futuro: il consumo
di musica registrata su supporti fa parte di uno stile di vita del passato,
giustificato dall’esistenza di appassionati ormai avanti con gli
anni, che hanno ancora le loro collezioni e i loro apparecchi. Quasi
impossibile, tra l’altro, trovare dei lettori di cd, se non sulle
bancarelle.
Vi invito a dare un’occhiata al grafico pubblicato qualche giorno
fa sul sito del Guardian. Dimostra la fondatezza di alcune
valutazioni critiche su declino dell’industria fonografica, tra
cui le mie (a partire da molti anni fa). Fin dai tempi dell’allarme
sulla «copia privata», nei primi anni ottanta, le case discografiche
hanno sostenuto che qualunque appropriazione di una registrazione attraverso
pratiche non legali costituisse una vendita persa. Convinti della validità
di una vera e propria assurdità economica, cioè la disponibilità
infinita da parte del consumatore, i discografici affermavano che se
invece di copiare un fonogramma il consumatore lo avesse comprato, avrebbe
avuto comunque i soldi per comprarne un altro; si accanivano dunque
(e lo avrebbero fatto per venticinque anni a seguire) contro i consumatori
più amanti della musica e più attivi, chiamandoli “pirati”,
nella convinzione che se avessero smesso di copiare (o, più tardi,
di scaricare dalla rete) avrebbero comunque avuto le risorse economiche
per comprare tutto quello che desideravano ascoltare.
Il grafico del Guardian, che si riferisce alle vendite in
Gran Bretagna negli ultimi dieci anni di prodotti tipicamente consumati
dal pubblico interessato anche alla musica, registra comunque un’espansione
del mercato, ma ci fa vedere che la quota della «musica»
(cioè dei supporti fonografici) è in continua contrazione.
È vero, ed è anche ovvio, che se è possibile procurarsi
lo stesso bene in una forma più agile, o addirittura senza pagarlo,
si potranno spendere i propri soldi anche per procurarsi altri tipi
di beni; ma quello che si vede dal grafico in modo molto chiaro è
che ci sono altri beni che attraggono in modo irresistibile le risorse
altrimenti dedicate alla musica: in particolare, i giochi. I giochi
sono in decisa espansione, e sono gli unici responsabili dell’allargamento
del mercato, essendo la «musica» in calo e i dvd ormai
stabili da qualche anno.
Il grafico non mostra altri consumi concorrenti: telefoni cellulari
e relativi servizi, fotocamere e videocamere digitali, computer e Internet,
eccetera. Negli anni che i discografici ancora mitizzano (e nei quali,
bisogna dirlo, si vendevano molti meno supporti fonografici di oggi)
questi consumi non esistevano. Il verso della famosa canzone dei Rolling
Stones, «what can a poor boy do except to sing for a rock ‘n’
roll band» non segnalava solo la condizione dei giovani londinesi
rispetto agli studenti politicizzati del resto d’Europa, ma indicava
l’orizzonte limitato delle possibilità di servirsi della
tecnologia in modo creativo. Nel ’68 lo «stereo»,
insieme alla radiolina a transistor, era l’unica tecnologia elettronica
di massa.
Oggi ampie fasce della popolazione preferiscono avere un cellulare,
un pc, una videocamera, una Playstation, che una collezione di «dischi».
Molti giovani (anche non tanto giovani) preferiscono far tardi la sera
cimentandosi in rete in un gioco di ruolo che ascoltando l’ultimo
album. E dunque quei tempi non torneranno più, cari discografici,
neanche se un governo compiacente mettesse un poliziotto vicino al
computer di ogni possibile downloader.
3 gennaio 2009 - Quelli che
hanno fatto il Sessantotto
Si parla molto di “quelli che hanno fatto il Sessantotto”.
Chi sono?
Il Sessantotto, come tutti sanno, copre un periodo abbastanza lungo:
grosso modo dal 1967 (prima occupazione della Cattolica di Milano)
o dai primi mesi del 1968 (Valle Giulia a Roma), alle elezioni politiche
del 1976 (il 20 giugno, quelle del “sorpasso” mancato)
o ai primi mesi del 1977.
Le prime occupazioni furono guidate da studenti che frequentavano gli
ultimi anni dell’università, e che dunque avevano intorno
ai 22-23 anni (come Mario Capanna, nato nel 1945). Una parte non piccola
dei militanti che si unirono ai movimenti studenteschi lo fecero negli
anni più duri della “strategia della tensione”, quindi
tra il 1969 e il 1975: chi entrò all’università
nel 1969 era nato nel 1950, mentre gli studenti delle medie superiori
che affollavano le manifestazioni milanesi del 1975 (per le morti di
Varalli e Zibecchi) erano nati nel 1957 o 1958.
La “generazione del Sessantotto”, quindi, copre una dozzina
abbondante di anni (di nascita): tutt’altro che una sola leva,
tutt’altro che omogenea dal punto di vista delle condizioni di
vita durante l’infanzia e l’adolescenza e da quello della
formazione culturale e politica. In quell’arco di leve (da quella
del ’45 a quella del ’58), naturalmente, solo una minoranza
“fece” il Sessantotto. Non tutti partecipavano alle manifestazioni,
è ovvio, e una quota ancora più piccola militava in organizzazioni
politiche (e se no, la famigerata “maggioranza silenziosa”
da dove sarebbe venuta fuori?).
Il famoso “rapporto” del prefetto di Milano Libero Mazza
del 1970 parlava di migliaia di estremisti armati; fu causa di polemiche
e interrogazioni parlamentari il fatto che Mazza equiparasse a terroristi
(potenziali o in senso proprio) tutti i militanti della sinistra extraparlamentare.
Milano allora aveva un milione e seicentonovantamila abitanti: è
chiaro che quelle migliaia (armati o no che fossero: ma quelli armati
per davvero erano probabilmente poche decine) erano una decisa minoranza
della popolazione, anche nella fascia demografica più coinvolta.
Insisto su Milano, perché fu uno dei centri più rilevanti
di quella stagione: se si estende il discorso all’Italia intera,
è facile dedurre che quelli che “fecero” il Sessantotto
furono davvero pochi. Molti, moltissimi, vissero in quegli anni la loro
gioventù, ma appartengono all’anomala “generazione
del Sessantotto” solo per appartenenza anagrafica e per averne
respirato il clima.
Non voglio in questa sede nemmeno accennare a un giudizio sulla rilevanza
di quel periodo e dei movimenti politici e culturali che ne furono
protagonisti:
è certo che l’Italia fosse nel 1968 l’unica democrazia
nell’Europa meridionale, è certo che ci sia stato almeno
un tentativo serio di colpo di stato della destra autoritaria, è
certo che una strategia terroristica a base di attentati dinamitardi
(con centinaia di vittime) sia stata ispirata e guidata dai servizi
segreti, non solo italiani, con l’aiuto dei neofascisti, è
certo che quello sia stato un periodo di emancipazione e conquista di
diritti per i lavoratori, le donne, i giovani, i media, è certo
che sia stato anche il momento e il terreno di coltivazione del terrorismo
brigatista che esplose con la massima violenza a metà degli
anni settanta.
Certamente “quelli che hanno fatto il Sessantotto” ne portano
la responsabilità, in positivo, in negativo, per ciò che
hanno realizzato e per ciò che non sono stati capaci di vedere
o di fare. Sono comunque una minoranza, per di più segnata da
una diaspora che rende quasi impossibile assimilare delle esperienze,
creare delle categorie. In ogni caso, un sessantaquattrenne o un cinquantenne
di oggi (o chiunque sia nato tra il 1945 e il 1958) non è necessariamente
uno “che ha fatto il Sessantotto”. Anzi, statisticamente
è molto più facile che sia uno di quella maggioranza che
proprio non vi ha preso parte, che in quegli anni ha pensato alla carriera,
si è divertito nel simpatico clima di promiscuità, ha
cantato indifferentemente canzoni di Battisti o di Guccini, al massimo
una o due volte (per moda) ha gridato uno di quegli “slogan orribili”
di memoria morettiana (da Caro diario).
Negli ultimi tempi, forse anche per la nausea di dodici mesi di celebrazioni
del quarantennale, capita spesso di sentire manifestazioni di fastidio
o di critica severa verso la fantomatica “generazione del Sessantotto”.
C’è chi l’accusa di aver preso il potere e di averlo
usato male, c’è chi le rimprovera di non averlo preso,
c’è chi vede sessantottini “traditori” dappertutto
nelle stanze dei bottoni, c’è chi li compatisce come sconfitti.
Ma quali sessantottini, di grazia? A quali dei numerosissimi percorsi
individuali (politici, culturali, personali) ci si riferisce?
È curioso, ma questi discorsi generazionali – con toni
moralistici – non sono mai stati fatti per le generazioni che
fornirono le avanguardie e la base di massa del fascismo. E durante
il Sessantotto gli antifascisti storici e i partigiani erano amati e
rispettati, nonostante facessero anche loro parte (come sparuta minoranza)
delle stesse generazioni che avevano applaudito il Duce, avevano donato
l’oro alla Patria, erano corse ad arruolarsi per la conquista
dell’Impero o per “spezzare le reni alla Grecia”.
I propri anni si portano con dignità, o con indegnità,
a dipendere da quello che si è realizzato. Questo vale per tutti:
sessantottini, settantasettini, quarantenni, trentenni, ventenni. L’importante
è fare qualcosa, no?
8 dicembre 2008 - Lo
straordinario spopola
Pare incredibile, ma dall’ultimo intervento sul mio Diario sono passati
solo otto mesi. Sembrano otto anni. Ammetto la delusione e la malavoglia,
ma prego i cari lettori di comprendere che avevo davvero da fare. Qualche
prova? Da allora, dopo le elezioni, sono usciti due miei libri, ci sono
stati tre concerti importanti degli Stormy Six (tanto importanti che
potrebbero essere stati gli ultimi), ho vinto uno degli ultimi concorsi
universitari prima della “riforma” Gelmini, ho potuto ascoltare dalla
viva voce di una funzionaria del rettorato la frase indimenticabile:
«Ma lei, invece che andare in pensione, si fa assumere come ricercatore?»
Dunque, in attesa di diventare rapidissimamente associato, poi ordinario,
poi preside di facoltà e poi rettore (grazie al rapido svecchiamento
dell’università promesso dal governo, e per poter dare una risposta
convincente alla funzionaria), ed essendo prevedibile che prossimamente
sarò di nuovo molto impegnato, approfitto di una brevissima vacanza
per sottoporvi una riflessione.
Lo “straordinario” spopola. Da almeno un decennio è uno degli inquinanti
linguistici peggiori. Quando lavoravo a Radio Tre non potevo scambiare
due parole con un intervistato che già incappavo nell’odioso aggettivo.
E dire che allora li avvisavo, e premettevo nella corrispondenza un
elenco di sinonimi e di perifrasi. Poi mi è toccato subirlo da ascoltatore
e da lettore. “Straordinario” è entrato nella lingua di legno degli
intellettuali (soprattutto “di sinistra”, con molte virgolette), come
surrogato di qualsiasi anche modestissimo tentativo di argomentare un
giudizio. Il grande regista, l’esimio direttore, l’austero filosofo,
l’acuminato critico, il pragmatico architetto (spero che si capisca
che la precedenza all’aggettivo cerca di mimare la retorica socio-culturale
corrente), dicono che il tale spettacolo, il tale melodramma, il tale
saggio, la tale performance, il tale progetto è “straordinario”. Basta,
non c’è bisogno di altro. Se lo dicono loro... “Il tempo è tiranno”,
si sa. E anche lo spazio concesso sulle pagine dei giornali. Quindi,
perché dilungarsi in spiegazioni: è “straordinario”, no?
Arriva sempre un momento in cui le parole, dal lessico dei VIP della
cultura, approdano alla pubblicità. È successo anche a “straordinario”.
Forse non proprio ora, ci può essere stata qualche avvisaglia precedente.
Ma quando un aggettivo entra con un ruolo da protagonista in uno spot
della Barilla, è fatta. L’ansia per lo “straordinario” diventa di massa.
Come al solito, l’adozione della lingua dei VIP (di “certi” VIP) è anche
uno strumento per connotare le caratteristiche upmarket del
prodotto. Quando “straordinario” apparirà in uno spot della Lidl il
processo sarà davvero compiuto. Ma la barillazione di “straordinario”
ci insegna comunque qualcosa.
Primo: è il segno che il tagliar corto con un giudizio apodittico, dopo
esser stato a lungo un giochetto dei potenti, penetra in tutti gli strati
della società. “Assolutamente”. “Straordinario”. “Senza se e senza ma”.
Anzi: “Assolutamente straordinario, senza se e senza ma”. L’esasperazione
dello scontro e della certezza della propria visione. L’inutilità del
ragionamento, la pretesa di “aver ragione”. Un modo di alzare la voce
senza nemmeno sforzare la laringe. L’anticamera di ogni guerra civile
(ah, ne sono assolutamente convinto!).
Secondo (però...): perché proprio “straordinario”? Perché questo bisogno
di meraviglia, di eccezionalità? Forse per restituire valore a un mondo
arido? Perché si è incapaci di vera meraviglia, di restare incantati
sempre e da ogni cosa (dalla natura, dalle altre persone, dalle creazioni
scientifiche e artistiche - tutte - dell’umanità), e ci si rifugia nella
“straordinarietà” di qualche “evento”? Chi non si piega alla retorica
dello “straordinario” si inchina a quella della fede. C’è bisogno di
un dio, dell’aldilà, di ciò che comunque non appartiene alla nostra
vita e possiamo sperare solo di contemplare. A chi serve, se nessuno
riesce a riconoscersi nell’ordinario? A chi serve, se l’ordinarietà
della nostra vita (della maggior parte della nostra vita) è svuotata
di valore, e le cose “straordinarie” sono fuori dalla nostra
portata? Ma perché, allora, non cercare valore – e meraviglia
– nell’ordinario?
(Ah be’, se riesco a diventare ordinario ve lo racconto!).
6 ottobre 2007 - La linea del partito
e quella dell'intellettuale
A chi può interessare di sapere se voterò o non voterò
alle primarie del Partito Democratico? Forse nemmeno a quelli che continuano
a spedirmi gentilmente inviti a farlo, per questo o per quel candidato
(sono stato fra quelli che hanno votato nelle altre primarie: il mio
indirizzo è noto, anche se pare che non dovrebbe essere usato).
Non voterò. Questo non è un invito ad altri a seguire
il mio esempio, ma qualcuno che non vota ci deve pur essere, anche tra
quelli che parteciparono alle primarie del 2005. I conti sono presto
fatti: allora fummo più di 4 milioni, ora si farà festa
se i votanti saranno più di un milione. Io sarò uno di
quei più di tre milioni che mancheranno all’appello.
Non faccio politica attivamente. Credo di fare politica con ogni mia
azione, con ogni cosa che scrivo, con i miei comportamenti pubblici
e privati. Ma non faccio politica militante. Ho tentato di fare politica
militante anche relativamente di recente, ma sono stato – per
così dire – respinto. Per fare uno dei vari esempi possibili,
quando, insieme a un collega che è uno dei maggiori esperti di
sistemi informatici del nostro paese, sono andato a una delle riunioni
di fondazione del PdCI (autunno del 1998), sono fuggito dopo un’ora
e mezza di relazioni in stile anni ’60 sullo stato delle contraddizioni
nel pianeta, che finivano inevitabilmente in mugugni su «quei
delinquenti di Rifondazione». Ho partecipato all’assemblea
di fondazione dell’Unione (a Roma, febbraio 2004), sprofondando
in una noia televisiva mortale, dalla quale emergeva l’unico intervento
da statista: ahimé, quello di Giuliano Amato. Di quei giorni
ricordo molto di più un’altra cosa: l’annuncio alla
televisione spagnola – colto al volo facendo zapping in albergo
– di un José Luis Zapatero candidato allora dato largamente
per perdente, che in caso di vittoria socialista le truppe spagnole
sarebbero state ritirate dall’Iraq.
Non faccio politica in o con un partito (non avrei nessuna obiezione
di principio a farlo), ma la subisco. Più o meno esattamente
cinque anni fa la mia collaborazione (di alcuni anni) con Radio Tre,
fino ad allora pienamente soddisfacente, si è interrotta perché
le mie critiche all’uso della musica registrata con l’introduzione
delle playlist non sono piaciute al nuovo direttore, installato dal
governo di centro-destra. L’ex-nuovo direttore, ora, è
direttore di tutta RadioRai. Né cinque anni fa, né dopo
la vittoria elettorale dell’Ulivo, i politici del centro-sinistra
si sono interessati della radio: figurarsi del mio caso personale. Quando
si parla dei licenziamenti e delle esclusioni operate in Rai durante
il governo di centro-destra, se va bene, si ricordano «Biagi,
Santoro, Luttazzi, la Guzzanti e decine di altri collaboratori».
Avete mai sentito un solo nome, di quelle «decine di altri collaboratori?»
Avete mai sentito che qualcuno abbia ripreso a collaborare con la Rai?
Dall’inizio di questo decennio (chiamarlo secolo o addirittura
millennio mi sembra ridicolo: chiamiamolo uno dei decenni di merda più
recenti) ho lavorato, sempre più intensamente, nell’università.
Da allora i modestissimi compensi per questo lavoro sono soggetti, ogni
anno, a una tassazione crescente (non vorremo che questi lavoratori
autonomi la facciano franca con l’Inps, vero?), ed essendo rimasti
rigorosamente invariati in cifra lorda sono progressivamente diminuiti
al netto delle tasse e dei contributi. Il ministro dell’Università,
l’anno scorso, ha dichiarato che se nella finanziaria di quest’anno
non ci fossero state risorse sufficienti si sarebbe dimesso. Ci saranno?
Chi lavora nell’università le vedrà, o finiranno
in una partita di giro? E se non ci saranno, si dimetterà? Il
fatto che l’onorevole Mussi (persona rispettabile) abbia deciso
di non entrare nel PD non cambia la mia insoddisfazione: giro comunque
la domanda al suo vice Nando Dalla Chiesa, caro amico.
Infine, stamattina scopro che la piazza più vicina a casa mia,
Piazza Bernini, a Milano, sarà sventrata tra poco per costruire
un parcheggio sotterraneo, per un centinaio di posti auto, con rituale
eliminazione di una decina di alberi di alto fusto in perfetta salute,
sconvolgimento del traffico per almeno due anni (almeno secondo la data
dichiarata di termine dei lavori), mentre a poche centinaia di metri
è ancora aperta la voragine di via Ampère, dove gli scavi
hanno minacciato di far crollare i palazzi adiacenti. Questa politica
di speculazione feroce, che non dà nessun beneficio ai cittadini,
regalando terreno pubblico a immobiliaristi e costruttori amici degli
amici, è stata contrastata a Milano solamente dagli abitanti
dei quartieri. Ha suscitato più contraddizioni all’interno
della stessa maggioranza di centro-destra che l’opposizione intransigente
del centro-sinistra. Quando stamattina ascoltavo la gente del quartiere
desolata e arrabbiata, avrei avuto la tentazione di dire: «Avete
votato la Moratti? Ecco quello che vi meritate.» Ma ho taciuto,
perché non ricordo che nessuno degli esponenti del centro-sinistra
milanese (ora candidati per le primarie del PD) abbia speso una parola
sul modo in cui la speculazione negli ultimi anni ha messo le mani sul
sottosuolo della città.
Spero che tutto questo non passi per «antipolitica». O che
contribuisca a spiegarla. La mia posizione non è dissimile da
quella dell’intellettuale nella barzelletta grafica che un filosofo
comunista di Berlino Est mi disegnò su un tovagliolo di carta
circa venticinque anni fa, e che con piacere riproduco sul mio sito.
Sarò uno di quei tre milioni che non voteranno. Può darsi
che mi abitui.
23 gennaio 2007 - Musica
d'arte e di consumo
Mi è difficile trattenere delusione e sconforto per l’intervista
di Fabio Fazio a Maurizio Pollini, durante la trasmissione “Che
tempo che fa” di domenica 21 gennaio.
Molti musicofili (amici e colleghi che ho sentito a voce, altri che
ho letto su vari blog) hanno criticato Fazio, per quella che è stata ritenuta “ostentata
incompetenza”. Non entro nel merito. Può darsi che Fabio Fazio sia
a disagio col repertorio “colto” (credo sia noto che si è laureato
a Genova nel 1990 con una tesi su Elementi letterari nei testi dei cantautori
italiani), ma a me il suo atteggiamento è parso più che altro
una forzatura del ruolo di “popolarizzatore” che si ritiene spetti
ai conduttori televisivi. Col rischio che – mentre Fazio cercava di spiegare
al “grande pubblico” i concetti espressi da Pollini – il grande
pubblico di Pollini, che si sarà messo all’ascolto della trasmissione,
avrà trovato il livello dell’intervista inadeguato alla propria
competenza, più alta.
Ma quello che mi ha deluso e sconfortato è stato proprio Maurizio Pollini,
persona che ammiro fortissimamente, e che considero (se non altro per certe battaglie
condotte dalla stessa parte, a cominciare da “Musica nel nostro tempo”)
un amico. Non era la prima volta che sentivo parlare Pollini alla televisione,
degli stessi argomenti che ha toccato il 21 gennaio. C’è stato un
programma di RaiSat, intitolato (credo) “Musica della rivoluzione”,
nel quale venne riproposto qualche anno fa il filmato di uno degli storici concerti
dei primi anni settanta: forse al Comunale (oggi Valli) di Reggio Emilia, nel
1973, nel quadro delle manifestazioni di “Musica/Realtà”.
Claudio
Abbado e Maurizio Pollini avevano presentato composizioni di Luigi Nono, e al
termine i tre musicisti avevano sollecitato il dibattito col pubblico. Un giovane
si era alzato, aveva detto di aver apprezzato molto la musica di Nono, ma di
trovarla tutto sommato ostica; credendo di spiegarsi, aveva detto che gli piacevano
molto i King Crimson. Ma né Nono, né Abbado, né Pollini
sapevano chi fossero i King Crimson, e quindi era loro sfuggito il sottinteso
del commento: che la musica di Nono risultava difficile al giovane ascoltatore,
nonostante apprezzasse un rock tra i più radicali dell’epoca (più di
vent’anni dopo, un eminente musicologo mio amico fraterno, ascoltando durante
una mia conferenza un brano dei King Crimson registrato nel 1973 al Concertgebouw,
mi disse: «Però, mica male questo minimalista. Chi è?»).
Quindi, il commento scatenò un fuoco di fila, nel quale Maurizio Pollini
era particolarmente acceso, contro la “musica di consumo”, prendendo
di mira soprattutto gli arrangiamenti mozartiani di Waldo de Los Rios. Che coi
King Crimson c’entravano moltissimo, evidentemente.
Durante l’intervista con Fazio, Pollini ha ripreso quasi con identici accenti
(forse con meno scandalo) la stessa tripartizione statica e contraddittoria dell’universo
musicale: la musica d’arte (ottima), la musica popolare (spesso molto buona,
vedi l’uso che ne hanno fatto Beethoven e Bartók), la musica di
consumo (brutta, onnipresente e inutile, col suo ostinato “bum bum” ritmico),
più il jazz, che in alcuni casi è davvero musica d’arte.
La spiegazione che Pollini (malgrado le frenate di Fazio) ha cercato di dare
della varietà e della sottigliezza ritmica della musica d’arte rispetto
alla musica di consumo, citando il caso del Sacre di Stravinsky, sarebbe
stata molto utile trent’anni prima: forse il giovanotto emiliano avrebbe
potuto spiegare che la ragione per cui lui e moltissimi cultori del progressive
rock frequentavano la musica dei King Crimson era proprio la presenza di metri
addittivi, di armonie politonali, di scale inusitate. Se Fabio Fazio avesse un
minimo di conoscenza della popular music al di fuori della canzone d’autore
italiana, avrebbe potuto citare a Pollini i nomi di Frank Zappa, dei Gentle Giant,
dei Genesis (per non andare verso nomi troppo “difficili”); e che
dire della popular music greca, turca, mediorientale?
L’arte, nel discorso di Pollini, si identifica con la qualità, e
la qualità “fa bene”. Visione politicamente condivisibile.
Ma la qualità è una proprietà esclusiva del repertorio “colto”?
E chi la decide: è un dato universale, stabilito a priori o da una cerchia
di eletti? O è socialmente organizzata? Pollini non si domanda come mai
il jazz è stato a lungo considerato (negli ambienti “colti”)
una musica rozza – tanto che lo stesso Adorno ne scriveva male anche dopo
Monk, Parker, Davis, Coltrane – e solo negli ultimi trent’anni è entrato
nel pantheon della musica d’arte? È forse cambiato il jazz, o è cambiato
il giudizio da parte degli amanti della musica colta?
Contrapporre in modo così rude
la qualità della musica d’arte alla banalità di quella di
consumo, senza minimamente contemplare l’esistenza di popular music diversa
da quella presentata in forma di caricatura, serve a conquistare alla musica
colta nuovi ascoltatori giovani? O non serve piuttosto a creare un piccolo gruppo
di nuovi snob, convinti della qualità della musica d’arte senza
avere strumenti di comprensione diversi da quelli del più ottuso ascoltatore
di “bum bum” ritmici?
Molti anni fa, durante un incontro nel quale
Pollini mi aveva detto: «Tu
che ti occupi di jazz...», sottintendendo un apprezzamento (mai
che io mi occupassi di “musica di consumo”!), gli avevo
promesso che gli avrei fatto avere una cassetta con una selezione di
brani di popular music che secondo me, a un musicista raffinato come
lui, avrebbe fatto comprendere all’istante che la questione della
qualità e
del valore estetico è più complessa e articolata di quello
che il dualismo “d’arte”/”di consumo” lascia
intendere. Una copia di quella piccola antologia, con la scritta “cassetta
di Maurizio” dev’essere ancora tra le mie cassette. Mi
sa che mi toccherà rispedirla.
18 dicembre 2006 - Minimo
comune denominatore
L’ultimo in ordine di tempo (per me) è stato Pier Ferdinando
Casini, ma quello che ho da dire è rigorosamente bi-partisan
(aaaaargh!).
Dunque, anche per Pier Ferdinando, come per tutti i politici italiani
(aspetto smentite), i conflitti fra le coalizioni o all’interno
di una coalizione possono essere risolti trovando un “minimo comune
denominatore” fra le diverse posizioni. È comprensibile,
quindi, che i conflitti non si risolvano e che il clima sia sempre più
esacerbato: perché il minimo comune denominatore non esiste!
Esiste il minimo comune multiplo (mcm) che, dati due interi a
e b, è il più piccolo intero positivo che è
multiplo sia di a che di b. Esiste anche il massimo
comun divisore (MCD) di due interi, che non siano entrambi uguali a
zero: è il numero naturale più grande per il quale possono
entrambi essere divisi.
Ma il minimo comune denominatore proprio non c’è. Sì,
è vero: quando si sommano due frazioni il denominatore comune
si calcola facendo il minimo comune multiplo dei denominatori delle
frazioni da sommare: ma una volta ottenuto quel denominatore, non è
minimo rispetto agli altri denominatori. Ad esempio (traggo l’esempio
da Wikipedia), la somma di 2/21 più 1/6 è 11/42, e chiunque
vede che 42, per quanto sia il minimo comune multiplo tra 21 e 6, non
è “minimo” né “comune” rispetto
ai “denominatori” 21 e 6.
Il fatto che i politici (tutti, salvo smentita) siano ignoranti di
aritmetica non mi colpisce. Quello che mi preoccupa è che, come indica la
scelta di una metafora così balorda (cfr. G. Lakoff, M. Johnson, Metaphors We Live By, The University Of Chicago Press, 1980),
siano ignoranti anche di politica.
1 novembre 2006 - Quanto
vale la musica in Italia?
Una ricerca realizzata dal Centro ASK dell’Università Bocconi
ormai ogni anno permette di accedere a un resoconto dettagliato dell’economia
della musica in Italia. Una “stima del valore del sistema musica
in Italia” offriva per il 2004 – l’ultima ricerca
fu presentata a dicembre del 2005 – un totale di oltre due miliardi
di euro: per la precisione, 2284,2 milioni di euro (la tabella ASK riporta
“migliaia di euro”, ma si tratta di una svista).
È una cifra notevole, e sembrerebbe confermare l’obiettivo
originario della ricerca promossa dal CORAM (un coordinamento di operatori
del settore) nel 2001, sempre con il contributo scientifico della Bocconi,
e della quale le ricerche successive hanno conservato l’impostazione
e le fonti. Il comparto musicale – si sottintendeva allora e si
continua a sottintendere – costituisce una componente non trascurabile
dell’economia del Paese, e quindi se lo Stato non prende i provvedimenti
che gli operatori del settore sollecitano, non solo danneggia la vita
culturale della nazione, ma anche colpisce un ramo potenzialmente prospero
dell’industria, penalizzando investimenti, contribuendo alla perdita
di posti di lavoro, e così via. Un modo del tutto legittimo,
a prima vista astuto, di catturare l’attenzione dei politici,
in gran parte poco sensibili alle esigenze della cultura e della musica
in particolare. All’epoca della presentazione della prima ricerca
veniva dato molto risalto ai risultati di uno studio condotto negli
USA, dal quale risultava che gli studenti che suonavano uno strumento
avessero voti migliori in matematica e nelle materie scientifiche. L’idea
che la musica e la cultura non abbiano un valore in sé, ma che
servano ad altro (dallo studio della matematica al turismo) e solo in
questa dimensione subordinata possano essere prese in considerazione
e valorizzate, da allora ha fatto una certa presa sui politici italiani,
come si può facilmente ricavare dalla lettura del programma elettorale
dell’Unione.
Ma, tornando ai risultati della ricerca, viene da chiedersi se davvero
il valore del sistema musica in Italia sia ragguardevole, e giustifichi
da solo l’eventuale attenzione della politica. Come ho già
fatto l’anno scorso per i miei studenti, ho confrontato i dati
della Bocconi con i risultati dei principali gruppi industriali italiani
nello stesso anno. A questo riguardo, la mia fonte per il 2004 è
costituita da uno studio R&S Mediobanca, pubblicato la scorsa estate
su la Repubblica.
L’industria musicale nel suo complesso, comprendendo la discografia,
lo spettacolo dal vivo e le sale da ballo, l’editoria musicale,
l’industria degli strumenti musicali, le scuole di musica, genera
un volume di affari che è inferiore a quello di singoli gruppi
industriali collocati intorno al ventesimo posto della graduatoria nazionale:
i 2284,2 milioni di euro del sistema musica si confrontano con i 3255
di Luxottica, i 3100 di Indesit, i 2772 di Buzzi Unicem, così
come nel 2001 il valore di tutto il comparto musicale superava di poco
il fatturato della Barilla (da sola), ed era il doppio di quello di
Armani. Chi fosse interessato ai dati completi (e alle ricerche CORAM
e ASK) li può scaricare dal mio sito, alla pagina http://www.francofabbri.net/pagine/Uni_Download.htm
(sotto il titolo Materiali per gli studenti).
Vorrei fare qui solo due brevi considerazioni.
1) Le ricerche come quelle del Gruppo ASK sono utilissime, vanno incoraggiate,
si deve fare sì che i loro risultati siano conosciuti ampiamente,
vanno estese e perfezionate, ma non ci si deve illudere che compensino
la disattenzione dei governi verso le ragioni della musica. Le ricerche
fotografano l’intero comparto musicale come una singola azienda
in grave crisi (l’Alitalia, per dimensioni, si offre facilmente
al confronto), e la mia opinione è che il rapporto fra valore
economico del comparto e considerazione del valore culturale della musica
vada precisamente ribaltato: non è il valore economico che può
far comprendere l’importanza della musica nella vita nazionale,
ma è la marginalizzazione, l’umiliazione del valore culturale
della musica nel nostro Paese a fare sì che l’industria
musicale sia così poco significativa economicamente.
2) Nelle ricerche della Bocconi non è mai apparso un dato sulle
apparecchiature di riproduzione del suono (in quella del 2005 il dato
è indicato come “non disponibile”). Ci sono buone
ragioni metodologiche perché questo non sia avvenuto: non è
sempre facile ascrivere tutte queste apparecchiature a un impiego musicale
in senso stretto, e i dati sono certamente eterogenei e di difficile
raccolta. Certamente i lettori di cd e di mp3, gli impianti hi-fi, gli
impianti per le discoteche dovrebbero rientrare, mentre è più
difficile valutare il peso da dare alle radio, alle autoradio, agli
home-theater, e (perché no?) ai televisori e ai pc. Anche solo
limitandosi agli iPod, a cd e masterizzatori e agli hi-fi “classici”
si tratterebbe di cifre considerevoli, che aumenterebbero non di poco
il valore del comparto musicale. Ma a me pare che la mancata inclusione
di quei dati rifletta un carattere difensivo dell’industria musicale
che è a sua volta sintomo (e causa) della sua crisi. Non credo
che ci sarebbe da scandalizzarsi se qualcuno sostenesse che la radio
non potrebbe esistere senza i prodotti dell’industria musicale;
in misura minore lo si potrebbe dire della televisione; quanto il mercato
dei pc e di Internet oggi sia guidato dalle attività musicali
(scaricare files, masterizzare, ecc.) ce lo dicono le stesse pubblicità
delle maggiori aziende del settore. La musica muove interessi colossali,
ma l’industria musicale contempla il proprio ombelico, e lo trova
piccolo, sì, ma bello.
Il mio corso di Economia dei beni musicali (corso di laurea in Scienze
e Tecnologie della Comunicazione Musicale) inizia l’8 novembre
2006 alle 15:30 (Via Comelico 39/41, Milano, Aula Alfa).
18 luglio 2006 - Saluti
Al termine dello sciopero dei taxi, con giornalisti picchiati e passanti
insultati, dopo il blocco ferroviario da parte dei tifosi di una squadra
retrocessa, e precedenti disordini con un fotografo in prognosi riservata
ecc. ecc., mentre in Libano e Israele ci si bombarda, e dopo che (mirabile
confluenza del tutto) un gruppo di tifosi della nazionale è passato
canticchiando minacciosamente il pò pò pò davanti a un ristorante libanese
dove cenavo, parto. Come forse dimostra la foto qui sotto, scattata
all'Avana qualche settimana fa, è meglio essere in piccola ma buona
compagnia. Un abbraccio a tutti.
27 marzo 2006 - La dichiarazione IVA di Prodi
Riporto un breve stralcio della notizia che l’edizione on-line
di Repubblica dedicava il 26 marzo sera all’intervento di Romano
Prodi alla manifestazione “L’Unione fa la Musica”.
Prodi ha individuato anche alcuni punti che questa legge dovrebbe
toccare, e ha anche sottolineato che occorre che vi sia un coordinamento
tra i ministeri competenti: “Per quanto riguarda l'Iva –
ha detto Prodi – penso a una diminuzione dal 20 al 15 cento ma,
non illudiamoci che questo cambia il mercato. Ridurre l'Iva è
un atto, certo, di giustizia”.
Ho l’impressione che il cronista non abbia capito bene (non solo
la consecutio e la punteggiatura): del resto l’articolo pubblicato
sull’edizione cartacea del quotidiano, il 27 marzo, non porta
tracce della presunta dichiarazione di Prodi sull’IVA.
L’argomento, ovviamente, è l’IVA sui prodotti fonografici,
che è attualmente del 20%. Spiego qui di seguito perché
– secondo me – è impossibile che Romano Prodi abbia
veramente detto quello che la notizia gli attribuiva.
Nei paesi dell’Unione Europea esiste un’aliquota IVA ordinaria,
che i paesi sono liberi di variare entro un minimo e un massimo.
Per esempio (la lista completa si trova qui: http://www.e-services.agenziaentrate.it/aliquote_iva/aliquote_iva-01.htm),
l’aliquota ordinaria a Cipro è del 15% (valore minimo),
in Gran Bretagna è del 17,5%, in Svezia del 25% (valore massimo).
In Italia è del 20%.
Esistono poi aliquote ridotte (al massimo due), che le singole legislazioni
nazionali applicano a prodotti e servizi particolari. Per esempio,
la Danimarca non ha aliquote ridotte, la Gran Bretagna ne ha una (il
5%), l’Italia ne ha due (quella ridotta del 10% e quella superridotta
del 4%). Le direttive comunitarie stabiliscono rigorosamente l’applicabilità
delle aliquote ridotte a questo o a quel bene o servizio (l’elenco
si trova nell’allegato H della Sesta Direttiva del Consiglio del
17 maggio 1977, successivamente modificata, che si può vedere
qui: http://europa.eu.int/eur-lex/it/consleg/pdf/1977/it_1977L0388_do_001.pdf).
La ragione è semplice: il trasferimento di una certa categoria
di beni a una aliquota ridotta non deve rientrare nell’autonomia
decisionale dei singoli stati, dato che provvedimenti unilaterali sarebbero
turbativi della concorrenza.
Questo è il quadro normativo che ha finora impedito la riduzione
dell’IVA sui fonogrammi. I fonogrammi non sono compresi nella
lista dei beni ammessi alle aliquote ridotte; le uniche possibilità
per ridurre l’IVA “sui dischi” sono le seguenti: 1)
ridurre l’aliquota ordinaria, cioè su tutti i beni e servizi;
2) rinegoziare la direttiva europea sulle aliquote ridotte.
La prima ipotesi è inapplicabile, per gli effetti devastanti
che avrebbe sul gettito, e in ogni caso non avrebbe il carattere selettivo,
rivolto ad aiutare l’industria discografica in crisi, che viene
invocato dagli operatori del settore. La seconda ipotesi trova un’opposizione
determinatissima da parte di alcuni stati membri, in particolare la
Gran Bretagna: quindi, occorrerebbe un’azione concertata di molti
paesi dell’Unione, col rischio comunque di trovarsi di fronte
a un veto (le modifiche all’elenco dell’allegato H devono
essere approvate all’unanimità).
Se ne era accorta a suo tempo la titolare del ministero della cultura
del governo Zapatero appena insediato, che aveva prima annunciato in
pompa magna la riduzione dell’IVA sui dischi in Spagna, per fare
una precipitosa marcia indietro (del tutto ignorata dai media) pochi
giorni dopo.
Quindi, ridurre l’IVA sui fonogrammi dal 20% al 15% sarà
senz’altro un atto di giustizia, ma è quasi impossibile
da realizzare: Prodi, con la sua esperienza europea, non può
non saperlo.
13 marzo 2006 - Se ne vado
«Che lei si alzi e se ne vada è una cosa che lei non può
dire», ha detto Lucia Annunziata all’inizio del battibecco
finale con Silvio Berlusconi, nella ben nota intervista del 12 marzo.
E cosa ha risposto il Presidente del Consiglio? «Allora, mi alzo
e se ne vado.» Un piccolo lapsus. Può essere
interpretato in due modi:
1. Berlusconi ha una scarsa padronanza della lingua italiana;
2. quando è alterato, Berlusconi dice quello che pensa veramente:
e cioè che lui si alza, ma in realtà è Lucia Annunziata
che se ne va.
Teniamone conto, perché anche quando gli elettori gli avranno
detto che se ne deve andare, farà di tutto perché siano
loro ad andarsene. Non è un errore, e non è uno scherzo.
2 novembre 2005 - Rock e lento
Chissà se avevamo davvero bisogno del giochino “rock/lento”. Nuovo,
comunque, non è: si rigenera a qualche anno di distanza dall’edizione
precedente, cambiando titolo per le due categorie. Negli anni d’oro
del rock si chiamava “in/out”. Però Adriano Celentano e i suoi autori
potevano trovare un nome diverso per la categoria “out”: “lento” funziona
malissimo. Prima di tutto, per ragioni logiche: Celentano, o chi per
lui, contrappone due categorie, una delle quali però implica l’altra.
Mi spiego. Fin dall’epoca del rock ‘n’ roll originale, quello al quale
Celentano si è sempre ispirato, il genere era definito dalla compresenza
nel repertorio di brani veloci, agitati (Blue Suede Shoes,
All Shook Up) e di brani lenti (Love Me Tender, Crying
In The Chapel). Il personaggio di Elvis Presley, e con lui il rock
‘n’ roll “classico”, sostanzialmente si regge grazie all’identificazione
fra la sovreccitazione del bulletto di provincia con la tenerezza romantica
del bravo studente, e sulla difficoltà di decidere quale dei due sia
più pericoloso. Dunque, fin dagli anni cinquanta “rock” e “lento” non
sono contrapposti, ma due anime (Jekyll e Hyde?) della stessa musica.
Quando poi, nella seconda metà degli anni sessanta, la musica diretta
al consumo simultaneo di un largo pubblico giovanile di massa (la definizione
è di Simon Frith) comincia a chiamarsi “rock” e basta, la “slow rock
ballad”, cioè il “lento” del “rock”, diventa una componente ancora più
significativa del genere. È mai possibile immaginarsi il rock senza
Yesterday, Lady Jane, Michelle, Since
I’ve Been Loving You, Wish You Were Here? Quindi il rock
è anche lento. Se posso aggiungere una considerazione personale, il
fatto che Celentano, per accontentare la parrocchietta, abbia qualificato
Zapatero come “lento” mi è parso squallido, ai confini del miserabile.
Ma se Zapatero è “lento” come It’s All Over Now, Baby Blue,
come For No One, come God Only Knows, come A Salty
Dog, come Bridge Over Troubled Water, come Imagine,
come Purple Rain, e Celentano è “rock” come Prisencolinensinainciusol
e come Tre passi avanti, non ho dubbi su chi e che cosa scegliere.
1 luglio 2005 - Dove sono i nostri Billy Bragg?
Ho un’opinione (modesta e poco originale, lo so): che la fame
dell’Africa sia il risultato di secoli di rapina delle risorse
naturali e umane di quel continente da parte della “civiltà
occidentale”. Capisco che risvegliare centinaia di milioni di
coscienze addormentate, anche solo sulle conseguenze tragiche di quella
rapina, possa essere utile. Ma se non si fa niente per accennare (almeno!)
alla causa principale della rovina dell’Africa, si rischia di
ingigantire quel circolo vizioso di aiuti, corruzione, debiti che alimenta
i conti in banca di qualche dittatore e il giro di affari delle imprese
occidentali coinvolte nelle opere finanziate dagli aiuti.
Non discuto la buona fede di Bob Geldof, né di alcuno dei musicisti
coinvolti nel Live Eight. Ma mi fa specie la presenza del tutto minoritaria
– soprattutto nel programma di Roma – di cantanti e gruppi
che abbiano fatto della lotta contro quella rapina una ragione profonda
della loro attività artistica. Non importano le etichette politiche;
chiamiamola lotta antimperialista, anticapitalista, chiamiamola pure
indipendenza artistica, dignità personale: credo che chiunque
legga queste righe abbia idea del profilo dei musicisti che potrebbero
salire sul palco del Circo Massimo dando il senso di una radicata e
radicale solidarietà con la tragedia africana e con tutti gli
oppressi del mondo, e di quelli che invece sarebbero comunque bene accolti
per una testimonianza, ma la cui traiettoria artistica e professionale
si è sempre mossa lontanissimo da quella solidarietà.
Ora, è evidente che questi ultimi siano in larghissima maggioranza.
Intendiamoci bene, non invoco una selezione di “duri e puri”.
Ma, vivaiddio, questa è una manifestazione politica, secondo
le chiarissime indicazioni dei promotori. E allora assume un segno politico
illuminante (e poco gradevole) non la presenza di Biagio Antonacci,
Laura Pausini, Cesare Cremonini e di tutte le altre benemerite star
del pop che hanno voluto partecipare, ma l’assenza (che non si
può non pensare sia deliberata, programmata) di tanti altri nomi
che certamente rappresentano meglio presso i giovani italiani le istanze
di lotta contro lo sfruttamento e la povertà. L’elenco
sarebbe lunghissimo, ma basterebbe voler dare un’occhiata alla
programmazione dei centri sociali, delle feste politiche, e perfino
alle classifiche di vendita dei dischi per rendersene conto. C’è
una lunga storia, che va dai Cantacronache alle posse, che è
stata messa alla porta. Come al solito, bisogna dire.
Insomma, a Edinburgo ci sarà Billy Bragg. Dove sono i nostri
Billy Bragg, il 2 luglio? Forse la direzione artistica del concerto
romano (toh! Un discografico!) ha valutato che ci avrebbero fatto fare
brutta figura?
26 maggio 2005
You’ll Never Walk Alone è stata scritta da Richard
Rodgers (musica) e Oscar Hammerstein II (parole), per il musical Carousel,
che debuttò a Broadway il 19 aprile 1945. Il clima della Seconda
Guerra Mondiale, che stava per finire, non è certamente estraneo
al carattere sia della melodia che del testo. La canzone ha avuto molti
interpreti, tra i quali Judy Garland, Frank Sinatra, Perry Como, Conway
Twitty, Nina Simone.
Nell’ottobre del 1963 uscì una versione su 45 giri di Gerry
and The Pacemakers, un gruppo di Liverpool che dal giugno del 1962 aveva
firmato un contratto con Brian Epstein e incideva per la Columbia sotto
la direzione artistica di George Martin. Il singolo salì al secondo
posto delle classifiche inglesi nella settimana del 26 ottobre, dopo
Do You Love Me? di Brian Poole and The Tremeloes e davanti
a She Loves You dei Beatles, e fu al primo posto per tutto
novembre, prima di cedere proprio ai Beatles.
Oltre che dai tifosi del Liverpool, che l’hanno adottata come
inno ufficiale, la canzone è stata a lungo cantata durante le
marce per la pace negli anni sessanta.
Il testo dice così: «Quando cammini in una tempesta / tieni
alta la testa / e non aver paura dell’oscurità. / Alla
fine della tempesta / c’è un cielo dorato / e il canto
dolce e argentino dell’allodola. / Continua a camminare nel vento
/ continua a camminare nella pioggia / nonostante i tuoi sogni siano
scossi e agitati… / Cammina, cammina, con la speranza nel cuore
/ e non camminerai mai da solo / non camminerai mai da solo.»
Ferale per il Presidente del Consiglio, l’ascolto della canzone
potrebbe essere suggerito (e magari imposto) ai politici dell’opposizione,
sostituendo il futuro degli ultimi due versi con un imperativo.
25 maggio 2005
A un mese di distanza, riparo a una mancanza di informazione. Durante
lo spettacolo di Appunti partigiani del 25 aprile scorso gli
Stormy Six hanno eseguito per la prima volta una nuova orchestrazione
di Stalingrado e La fabbrica. Al gruppo (erano presenti
Carlo de Martini, Tommaso Leddi, Umberto Fiori, Franco Fabbri, Pino
Martini) si sono aggiunti gli archi di una formazione proveniente da
varie orchestre, compresa quella del Teatro alla Scala: Daniele Parziani
e Alessandro Vavassori (violini), Francesco Lattuada e Danilo Rossi
(viole), Luca Franzetti e Mario Brunello (violoncelli), Omar Lonati
(contrabbasso). L’orchestrazione era a cura di Tommaso Leddi e
Carlo De Martini.
A giudicare dalle reazioni del numerosissimo pubblico presente e dai
messaggi che sono arrivati nei giorni successivi, è stata una
bella cosa. Naturalmente nessun giornale ne ha dato notizia, ma questo
è del tutto normale. Purtroppo senza gli archi aggiunti, le due
pericolossime canzoni (da evitare accuratamente in festival, spettacoli
e dischi “di sinistra”, come il Primo Maggio, il Mantova
Musica Festival, le antologie discografiche dedicate alla Resistenza)
saranno eseguite nuovamente nella serata inaugurale del Mittelfest,
a Cividale del Friuli, il 16 luglio 2005. È un luogo periferico,
i moderati possono stare tranquilli.
18 maggio 2005
Due piccole osservazioni sulla laurea in Scienze della Comunicazione
conferita a Vasco Rossi:
1) Chissà se i colleghi giornalisti impareranno mai che la laurea
ad honorem la si dà ai morti (quella che si dà ai vivi
si chiama laurea honoris causa). Pare che la toga indossata da Vasco
Rossi allo Iulm costasse 700 euro. Si spera che fosse abbastanza ampia
per permettergli di fare discretamente i debiti scongiuri.
2) Vasco Rossi è un bravo autore di canzoni, un ottimo cantante
rock, un grande comunicatore, non si discute. Ed è anche una
persona cordiale e rispettabilissima. Non c’è nulla di
male se lo Iulm (oltre che farsi un po’ di pubblicità)
ha ritenuto di premiarlo. Però, non molto tempo fa, alla stessa
università è stato proposto di ospitare la conferenza
internazionale della più grande associazione di studi sulla popular
music, dove sarebbero intervenuti più di trecento studiosi di
oltre trenta paesi, a portare i risultati delle loro ricerche, coltivate
nelle numerosissime università di tutto il mondo (Italia compresa)
dove si studia seriamente la popular music. I responsabili dello Iulm
hanno detto che non erano interessati. La conferenza si farà
lo stesso, alla Sapienza di Roma, dal 25 al 30 luglio 2005. I colleghi
giornalisti e capiservizio che hanno dedicato alla laurea di Vasco Rossi
colonne e colonne, sono gentilmente invitati ad assistere. Come uno
degli organizzatori mi aspetto – prima o poi – una laurea
honoris causa (ma anche ad honorem andrebbe bene lo stesso).
9 maggio 2005
Quando canto “… gli alpini che muoiono, traditi lungo il
Don”, in una canzone che ho scritto qualche anno fa (giù
la maschera: nel 1973), ho in mente alcune cose precise. Il fratello
di mio padre, mio zio, il tenente Guido Fabbri, è morto in Russia.
Era nella divisione Julia, battaglione Cervino. A quanto pare fu visto
l’ultima volta avanzare a mani nude contro un carro armato sovietico.
Gli hanno dato la medaglia d’argento al valor militare alla memoria,
che fu appuntata in una cerimonia commovente sul petto del futuro autore
de La fabbrica e coautore di Stalingrado. Il mio.
Oggi festeggio (non celebro: festeggio) insieme a voi la vittoria dell’Unione
Sovietica e degli altri Alleati contro il nazifascismo, convinto che
quella vittoria abbia liberato non solo gli antifascisti, non solo quelli
come mio zio che andarono al fronte per senso del dovere e patriottismo,
ma anche gli stessi fascisti, molti dei quali – se avessero vinto
– se ne sarebbero pentiti amaramente.
Certo, ci sono molte ragioni per cui questa festa non può essere
gioiosa come altre: non ultime che il nazismo e il fascismo esistono
ancora, che ancora c’è la guerra, e che molti delitti compiuti
da fascisti in questi ultimi sessant’anni sono rimasti impuniti.
E, naturalmente, che quella vittoria è stata per molti europei
l’inizio di un periodo oscuro, come insistono quotidianamente
gli opinionisti.
Nonostante il titolo della canzone che ho cantato mille volte –
che ripete il nome della città la cui resistenza ha cambiato
il corso della guerra, come concordano gli storici di ogni tendenza
– non sono né stalinista, né esperto di Stalin.
Mi ricordo solo (cosa di cui quegli opinionisti sembrano dimenticarsi)
che Stalin morì nel 1953, che i suoi crimini vennero denunciati
da Chruscev nel ventesimo congresso del Pcus, nel 1956, e che se la
revisione della storia può spingersi a trovare un nesso fra l’affermazione
del nazismo e la minaccia del bolscevismo, allora si potrebbe anche
pensare che per l’isolamento dell’Urss e per le restrizioni
della libertà che colpirono i cittadini di quel paese e dei suoi
satelliti, un ruolo, chissà quanto piccolo, devono pur averlo
giocato le politiche delle potenze occidentali. Ma temo che ci si perderebbe
in una discussione infinita.
Vorrei, invece, festeggiare quella vittoria – se mi è permesso
– con lo stesso spirito con cui ancora oggi i francesi (e con
loro gli uomini liberi del mondo) festeggiano la Presa della Bastiglia.
Nessuno si nasconde che il periodo culminante della Rivoluzione Francese
abbia preso il nome di Terrore, che siano state tagliate molte teste
di innocenti, che gli ideali di libertà, uguaglianza, fratellanza,
siano stati portati in giro per l’Europa dalle armate di un imperatore.
Il 14 luglio, ugualmente, si scende per le strade e si balla. Così
dovremmo fare il 9 maggio.
Un’ultima annotazione. Qualche anno fa, alla radio, ho sentito
gli argomenti di un giovane economista rampante. Diceva che da quando
non c’è più l’Unione Sovietica, e dunque la
minaccia che forti proteste popolari siano anche solo moralmente appoggiate
da una grande potenza mondiale, non aveva più senso che le nazioni
capitaliste si sforzassero di mantenere lo stato sociale. In sostanza,
quell’economista ci spiegava che se fino a ora avevamo avuto l’assistenza
sanitaria, le pensioni, la scuola pubblica, dovevamo ringraziare l’Armata
Rossa. Be’, per questo io la ringrazio ancora adesso.
3 maggio 2005
Sono passate alcune settimane dalle mie dimissioni dalla direzione artistica
del Mantova Musica Festival, e ancora il MMF non le ha annunciate. D’altra
parte, nessun altro annuncio è stato fatto, a parte una lettera di invito
spedita a organizzatori musicali di tutta Europa (scritta a suo tempo
da me, ma inviata sicuramente dopo le mie dimissioni) che riporta ancora
il mio nome fra i direttori artistici. Poco male. So che questa trascuratezza
non è dovuta a malizia. Però, da qualche parte si deve poter leggere
perché mi sono dimesso. Questa è l’occasione.
Dai primi di novembre del 2004 esiste un testo, redatto da me, che indica
le linee programmatiche del Mantova Musica Festival 2005. Questo testo,
approvato dai promotori del MMF, è stato utilizzato in varie occasioni
anche per presentare a enti pubblici, in atti ufficiali, il progetto
del Festival, con l’indicazione della mia responsabilità artistica (primus
inter pares, insieme a Titti Santini e Vittorio Cosma).
Arrivati a metà aprile 2005, cioè a un mese e mezzo dalla data dell’inizio,
ragioni di budget (largamente prevedibili mesi e mesi prima) hanno suggerito
tagli al programma, ma con una distribuzione secondo me iniqua, affliggendo
in modo particolare gli aspetti innovativi, e con il forte suggerimento
di mantenere un occhio particolarmente attento ai nomi di richiamo.
Ho dedicato più di un articolo alla debolezza del concetto di “nome
di richiamo” e all’odiosità della distinzione fra “big” ed “esordienti”
in un contesto come quello di Mantova, e in presenza di una situazione
nella quale il mercato tradizionale è asfittico, mentre decine o centinaia
di musicisti e gruppi emarginati dai media riescono tuttavia ad avere
un seguito locale molto significativo.
Pensavo che il successo della prima edizione del MMF fosse sufficiente
a far capire che le cose stanno cambiando, e velocemente. Invece, quando
si è trattato di tagliare qualcosa, gli “eventi” (che drenano la grande
maggioranza delle risorse del MMF) sono stati lasciati intatti, mentre
si è proposto di ridurre altri spazi, per di più con il famoso “occhio”
ai nomi.
Consideravo che il mio mandato nella direzione artistica fosse di:
1. Coordinare le scelte della direzione con quelle della commissione
selezionatrice, quindi (semmai) di assicurare un occhio di riguardo
proprio ai non-nomi.
2. Contribuire a rinnovare la struttura del Festival, tenendo conto
della stagione diversa e della diversa collocazione rispetto alla prima
edizione (quindi non “contro Sanremo”).
3. Rimediare all’attenzione scarsa che la prima edizione aveva riservato
a istituzioni storiche e recenti dell’opposizione musicale in Italia,
dal Nuovo Canzoniere Italiano alle etichette indipendenti più significative
(Materiali Sonori e molte altre), ai musicisti organizzati nel Forum
Sociale della Musica, alla musica colta: una disattenzione che nel 2004
poteva essere attribuita alla fretta, ma che nel 2005 si rivelerebbe
un vero e proprio accanimento contro i musicisti d’opposizione, del
tutto inspiegabile alla luce delle premesse che hanno portato alla fondazione
del MMF.
Non essendo in grado di realizzare nessuno degli aspetti rilevanti del
mio mandato, ritrovandomi costantemente in minoranza in una direzione
artistica a tre, e per di più nell’indifferenza dei promotori rispetto
ai temi per me più importanti, mi sono dimesso. Spero che il
MMF abbia comunque successo, e sono sicuro che porterà qualche traccia
del mio lavoro. Ma la somiglianza con i documenti con i quali a suo
tempo mi sono impegnato sarà troppo vaga e incerta perché abbia un senso
che rimanga la mia firma.
Un abbraccio a tutte le persone di valore che stanno ancora lavorando
al MMF.